Shadowbox Effect
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                                                         La difficoltà non sta nel credere nelle nuove idee, ma nel fuggire dalle vecchie.
                                                        John Maynard Keynes
 
                              

Schiavi moderni

Unknown | 16:03 | 0 commenti

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Alcuni dicono che il precariato, se è un male, è un male necessario. Perché siamo nel terzo millennio, perché è così che funziona l’economia della comunicazione e della conoscenza, perché le imprese hanno bisogno di flessibilità, perché dobbiamo affrontare la competizione internazionale, perché altrimenti l’occupazione non cresce. Il primo punto in effetti è corretto. A leggere le testimonianze raccolte in questo libro sembra di vivere ai bei tempi della schiavitù, e invece no, siamo proprio nel terzo millennio. Gli altri punti invece sono tutti ampiamente criticabili, ma soprattutto l’idea che l’Italia grazie alla precarizzazione abbia affrontato in modo “sano” i suoi problemi rispetto a occupazione e disoccupazione.
Vediamo perché, partendo dagli occupati.
L’ occupazione si misura in due modi: contando quante sono le persone che stanno lavorando, e quante sono le “unità di lavoro equivalenti” che tengono conto di quante ore lavora ognuno.
Se ci sono due idraulici che lavorano 60 ore alla settimana, gli occupati sono due, ma visto che entrambi fan l’equivalente di una volta e mezzo un tempo pieno le unità di lavoro sono tre. Se poi il lavoro va male, ed entrambi lavorano solo 20 ore, i lavoratori sono sempre due, ma le unità di lavoro sono solo più una. In pratica, in un caso si contano “le teste”, nel secondo quanto lavoro c’è. Nel grafico sotto si vede cosa è successo a lavoro e lavoratori nell’ultimo decennio. La prima cosa da dire è che l’occupazione (la linea blu) complessivamente è cresciuta. Parte fiacca, poi inizia a crescere in modo vigoroso, e negli ultimi anni, più o meno quando Berlusconi eMaroni riescono finalmente ad abbattersi sul mercato del lavoro con la legge 30, rallenta bruscamente. Guardando alle unità di lavoro poi la frenata è ancora più drastica, e diventa un calo nell’ultimo anno (sottolineato già da tempo sia dall’Istat che da Bankitalia).
La cosa interessante da notare è che per la prima volta nella storia repubblicana sono più i lavoratori che le unità di lavoro: c’è più gente che lavora, sì, ma di lavoro ce n’è poco.
L’inversione di tendenza sarà merito del precariato?
Vai a sapere, ma rimane il fatto che la performance peggiore dell’occupazione in Italia si registra proprio negli ultimi anni, nei quali il precariato ha cominciato a diffondersi sensibilmente. Nel secondo trimestre del 2005 la percentuale dei lavoratori dipendenti che avevano un contratto temporaneo era già del 12.5% (era del 9% nel 2000). Se poi, anziché guardare ai dipendenti, guardiamo ai precari con la “C” maiuscola (quella di co.co.co.), la situazione è ancora più evidente, perché anche per loro possiamo confrontare in modo molto efficace quante sono le “teste” che lavorano con quanto lavoro effettivamente c’è. Quanti sono i commensali e quanto è grande la torta. Nel secondo trimestre del 2004 l’Istat ci ha detto che i cococò sono circa 400 mila (e aggiungiamo un “finalmente”, visto che è dal 1996 che aspettavamo stime affidabili). Tradotto in parole, il numero dell’Istat si legge più o meno così: “Nel giorno in cui abbiamo fatto le interviste, c’erano 400 mila italiani che stavano lavorando come cococò”. Che succede se un call-center decide di buttar fuori 10 mila di loro per sostituirli con altri 10 mila collaboratori freschi freschi?
Che il mese dopo l’Istat continua a contarne 400 mila (la dimensione della torta), ma il numero di commensali che se la son divisa sale a 410.000. Il numero di commensali l’Istat non lo misura, ma per saperlo basta chiedere all’Inps, che ha appena pubblicato on line il suo osservatorio sui parasubordinati. Bene, considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito identificata come la più debole – nel 2004 se ne son contate 840.000.
Quanto lavoro c’è? Cento. Quanti sono i precari che cercano di spartirselo? Duecento. Ma veniamo ai disoccupati. Anche qui, la prima notizia sembra buona: dal grafico sotto vediamo che il numero di disoccupati nell’ultimo decennio è calato molto, almeno dal ’98 in avanti.
Di nuovo, però, il numero dei disoccupati non è una statistica da guardare da sola. Ci sono casi in cui l’economia va bene, ma la disoccupazione aumenta: quel che capita è che molti sono presi da un turbine di ottimismo e si mettono a cercar lavoro, e finché non lo trovano il numero di disoccupati aumenta. E ci sono casi in cui il mercato è talmente depresso che molti alzano bandiera bianca, smettono di cercar lavoro, e il numero di disoccupati diminuisce. Nel grafico è riportato appunto il numero dei cosiddetti “scoraggiati”, cioè persone senza lavoro che a precisa domanda dell’Istat “Perché non sta cercando lavoro?” barrano la X su “Ritiene di non riuscire a trovarlo”. Il numero di scoraggiati – 600 mila fin verso il 2003 – nel 2004 ha una prima impennata che li porta al milione, per poi salire ancora a circa 1.250.000. Basta convincere un altro mezzo milione di persone che è inutile stare a cercarsi un lavoro e porteremo la disoccupazione ad un confortante 5.5%.
Ma torniamo da dove eravamo partiti, e concentriamoci sulla Grande Bufala. È vero che le imprese e la stessa competitività dell’Italia hanno bisogno di flessibilità. È falso, invece, che le storie raccolte in questo libro abbiano lontanamente a che fare con questa esigenza. Per chiarire questo punto bisogna fare qualche distinguo sulle diverse forme di flessibilità introdotte in Italia. Da un lato ci sono forme più “sane”, che rispondono a reali esigenze di flessibilità organizzativa.
Tra queste ci sono i contratti a tempo determinato, l’apprendistato, e persino quelle fattispecie “iperflessibili” che vanno dal lavoro interinale al job sharing e al lavoro a chiamata. Tutte queste hanno regole certe che tutelano il lavoratore, e possono rappresentare un modo per i giovani di entrare nel mercato del lavoro. E se questo percorso in molti casi diventa difficoltoso la colpa è più dell’economia che va male che di vizi particolari di questi contratti. Dall’altro lato c’è il Far West rappresentato da quel contratto di lavoro che è talmente precario che quando hai finito di dire come si chiama è già finito: il contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Che più che aiutare i giovani ad inserirsi nel mercato del lavoro ne ha tenuti milioni ai suoi margini – posizione dalla quale è stato più agevole un loro pacato sfruttamento. Ecco, la Grande Bufala è che questo contratto non piace alle imprese perché offre flessibilità, bensì – per chi ne ha voglia, diciamo – perché permette uno sfruttamento quasi legale del lavoratore.
Per capire questo punto bisogna tornare alle sue origini: il vero problema infatti è che è un contratto nato male. Prima del ’96, l’unico modo regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo con un tempo determinato, dandogli una paga equa (rispetto a quanto guadagnano lavoratori equivalenti impiegati in lavori simili), e pagando anche contributi sociali, ferie, tredicesima e liquidazione (che non sono “regali” ma son previsti in quasi tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte). Poi c’era la via alternativa, molto vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione d’opera occasionale, magari con la promessa di una futura assunzione, evitando così di pagare contributi e tutto il resto, e potendo proporre una paga senza preoccuparsi che fosse equa oppure no. Anzi, essendo quasi sicuri di riuscire a sottopagare il lavoratore senza dover trattare troppo, grazie al fatto che mancano tutte le componenti accessorie della retribuzione citate sopra: quanti collaboratori han fatto caso che la liquidazione non ce l’hanno?
Nel ’96, quando nasce la famigerata formula della “collaborazione coordinata e continuativa”, la via alternativa diventa la via principe.
L’idea del legislatore era probabilmente opposta, era quella di far sì che anche per le prestazioni di lavoro occasionale si versassero dei contributi sociali. Di fatto, si è finito per legalizzare la prassi di mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto l’etichetta del lavoro “coordinato”. Etichetta che, essendo stata creata dal legislatore, è risultata ancora più innocente della prestazione occasionale. In assenza di controlli efficaci non c’è voluto molto perché si cominciasse a utilizzarla anche per lavori di durata di anni (altro che “collaborazione”), e persino nei call-center (l’equivalentemoderno della catena di montaggio). Uno potrebbe dire “beh, son sempre lavori, e poi se durano anche…”. Peccato che il legislatore, non intendendola una forma di lavoro tipica, non abbia pensato di fornire le tutele che sono dovute al lavoro tipico. Così, chi ne ha voluto approfittare si è garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per anni mettendo da parte quasi nulla per la propria pensione, e con un livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale. Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente. Per il rispetto del diritto alla maternità rinviamo a numerosi post arrivati sul blog.
Il problema ulteriore è che, se già le cococò son nate male, la legge Biagi, a parte cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo, è stata una riforma per molti versi peggiorativa. Anche in questo caso le intenzioni iniziali erano buone, nella direzione di limitare l’utilizzo improprio delle collaborazioni. Per far questo la legge richiede una forma scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno specifico progetto. Se non si può identificare un progetto l’impresa può essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro dipendente. È questa, in effetti, la clausola che è stata recentemente chiamata in causa dall’Ispettorato dellavoro per imporre l’assunzione di alcune migliaia di lavoratori dei call-center (vi sembra credibile che le migliaia di lavoratori di un callcenter abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere?).
Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice “non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. E che con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare. Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ad hoc e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Anche nei fatti, la Biagi sembra aver provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle imprese. In molti casi le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate in cocoprò. Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma del ricatto. Lo dimostra una ricerca recente dell’Ires, condotta su un campione di persone che hanno aperto una partita Iva tra il 2003 e il 2004, dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo del contratto.
foto 4Alcuni dicono che se si riformassero ancora le cocoprò o se si rendessero più severi i controlli il risultato sarebbe l’aumento del lavoro nero. Come se un ladro chiedesse di poter prendere gratis il bottino, altrimenti sarebbe stato costretto a rubarlo. Se un imprenditore ha un’attività che riesce a stare in piedi solo a costo di sottopagare un lavoratore, o solo a costo di farlo lavorare in nero, allora un Paese che vuole svilupparsi in modo sano può anche farne a meno, così si fa spazio ad altri imprenditori, magari un po’ più capaci, e che non abbiano il vizietto di andare a comprare al mercato degli schiavi. Chiudiamo con una considerazione ed una (facile, facilissima quanto tragica) previsione.
I dati Istat sull’occupazione, fan vedere come sia estremamente difficile uscire dalla situazione di “precariato stabile”: nel corso del 2004, il 10% dei lavoratori con contratto di collaborazione è stato “promosso” a lavoratore subordinato, e solo 5 su 100 hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Il sistema di rapporti di lavoro vigente favorisce dunque l’inserimento iniziale (o il reinserimento) sul mercato del lavoro, ma non la sua stabilizzazione. A fronte di un incentivo di tipo contrattuale (minori vincoli al datore di lavoro) si assomma un incentivo di tipo contributivo. Date però le diverse forme di “incentivazione”, ciò porterà inevitabilmente ad una copertura pensionistica insufficiente.
Per fortuna, l’uomo è un animale che si adatta bene all’ambiente: così se, da giovane lavoratore precario deve chiedere il sostegno economico dei genitori, da vecchio pensionato ex-precario, lo chiederà ai propri figli. Ammesso che ne abbia: avere un lavoro precario riduce di dieci volte la probabilità che una lavoratrice faccia un figlio.
Schiavi Moderni
Postfazione di Mauro Gallegati (con la collaborazione di Roberto Leombruni)

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