In Primo Piano
Da qualche settimana nel comparto crm Almaviva si respira aria di apparente tranquillità, anzi meglio dire di "attesa", di cosa nello specifico non è ancora noto ma qualche congettura possiamo liberamente farla...
Come è ovvio immaginare, è Roma attualmente a dettare l'agenda aziendale. Per farla breve, salta un accordo sulla cassa integrazione fortemente voluto dall'azienda, la stessa per ben due volte avanza proposte diverse: la prima più spinta, la seconda più mediatrice ritrattando su alcune intenzioni e ridefinendo la procedura come "riorganizzazione"; l'accordo in entrambi i casi non passa, pur con l'intervento delle segreterie territoriali, scavalcando di fatto le rappresentanze elette dai lavoratori sul sito Romano.
Risultato: picche.
A latere questo dimostra come la "forza" presunta di tali organizzazioni sindacali, che con tutta probabilità vanno a farsi garanti di un risultato ormai certo, è pari al nulla, e su questo si dovrebbe riflettere.
Ricordiamoci che l'operazione "cassa integrazione" riguardava originariamente due siti ovvero Roma e Palermo, rei (a detta aziendale) di non soddisfare alcuni requisiti di produttività e di soddisfacimento di entrate (incontro 06 febbraio).
Posto che l'accordo su Roma con tutta probabilità DOVRA' essere sottoscritto, bisogna ragionare su come far questo.
Scenario 1)
Creare delle liste di "proscrizione" per epurare anzitempo gli scomodi e riproporre l'impianto della cassa integrazione con gli "amici".
Scenario 2)
Riproporre l'accordo su Palermo, misurando nuovamente la forza di mobilitazione delle compiacenze sindacali, per far passare un accordo che possa transitivamente essere applicato anche su Roma.
Ci sarebbero da analizzare almeno altri 3 scenari possibili, sarebbe fantascienza, ma c'è da aspettarsi di tutto.
Invitiamo i Lavoratori a prendere coscienza di questa situazione e cominciare ad informarsi e farsi un'idea in merito alla questione. Noi di ASI abbiamo già posto l' accento sul fatto che la situazione Romana non doveva e non deve essere considerata come situazione a sé stante, perché interessa tutti i lavoratori almaviva di tutte le sedi in maniera diretta o indiretta.
Prepariamoci quindi a chiamare i fatti e le cose col loro nome, e sopratutto non fermiamoci all'apparenza degli scritti ma cerchiamo di "scavare e scovare" i reali motivi di alcune manovre.
"Pertanto, come anticipato tra l'altro in un precedente colloquio telefonico, non abbiamo dato corso alle deleghe associative con trattenuta a busta paga, poichè ASI non ha titolo a ciò, non essendo firmataria del Contratto Collettivo Nazionale di Categoria, nè - allo stato - può essere riconosciuta quale Organizzazione Sindacale titolare dei diritti ex lege 300-70"
Roma 24 aprile 2012
Cogliamo quindi l'occasione per specificare e sottolineare alcuni aspetti legali e costituzionali che vengono posposti di fatto con tale comportamento adottato da Almaviva Contact.
Non costituisce, nell'attuale quadro legislativo ordinamentale in materia giuslavoristica, prerogativa Aziendale arrogarsi il diritto di riconoscere l'associazione sindacale in quanto tale, ma unicamente agli enti tutori competenti. A tal riguardo è necessario evidenziare che il passaggio che riscontriamo nella Vs. richiamata nota del 24 aprile, laddove si afferma che "non può essere riconosciuta quale Organizzazione Sindacale titolare dei diritti ex lege 300/70" risulta quantomeno dubbio ed equivocabile.
Nel predetto documento, in particolare, viene affermato - con comportamento palesemente antisindacale e lesivo dei diritti della Ns O.S. - che la Vs Azienda non opererà con la trattenuta in busta paga delle quote associative distolte ad ASI dai lavoratori in quanto la stessa non è, attualmente, firmataria di Contratto Nazionale di Categoria (telecomunicazioni).
A tal proposito ricordiamo a codesta Azienda che è da configurarsi come comportamento antisindacale il rifiuto da parte del datore di lavoro di eseguire la trattenuta sindacale su delega del lavoratore. A quanto detto va aggiunto, inoltre, che attualmente la Vs Azienda opera in regime di trattenute sindacali nei confronti di altre OO.SS. presenti nella medesima sede lavorativa, anch'esse non firmatarie di CCNL, eludendo quindi, con tali decisioni quel "rispetto di principi generali che garantiscano uniformità di comportamento nei confronti di qualsiasi associazione sindacale" ribadito in recenti intese Sindacali"
ASI si attiverà nei modi e nei tempi che riterrà opportuni per far si che venga rispettato un diritto dei lavoratori tutti, e nel breve periodo intraprenderemo una serie di iniziative legali ed istituzionali, non tanto per aver riconosciuto uno status che non compete ne a noi ne tantomeno all'azienda, ma esclusivamente ai lavoratori; quanto per dare un segnale che il tempo delle vacche grasse sta per terminare, i Lavoratori non sono più disponibili ad essere trattati come numeri e non vedere riconosciuti i loro più elementari diritti associativi e di scelta.
Almaviva è tale per la forza dei suoi Lavoratori, e non per scelte dirigenziali, che in questi anni hanno creato esclusivamente malumori ed allontanamenti, questa forza va rispettata in ogni sua esternazione sia singolarmente che sindacalmente, quindi come aggregazione di unità.
ASI continuerà per la propria strada certa della bontà e della buonafede di ogni sua scelta e decisione, per questi motivi richiamiamo ogni singolo lavoratore a riflettere sulle modalità di trattamento riservate da questa azienda sia verso i singoli lavoratori, sia verso l'insieme degli stessi.
Affinchè non si riproponga un atteggiamento Lamaro, è assolutamente necessario che ogni Lavoratore, ogni organizzazione, prenda coscienza di ogni suo diritto e non ceda un solo centimetro di volta in volta, quello che attualmente sta accadendo a via Lamaro altro non è che il frutto di anni di concessioni sindacali, di svendita a buon prezzo dei diritti dei Lavoratori, di accondiscendenza su manovre che avrebbero fatto impallidire i più biechi regimi totalitari, sta iniziando una nuova stagione fatta di dignità ed onestà e di questo ASI si farà portavoce in ogni sede e con ogni mezzo.
Questi in pillole i fatti.
Alcuni dicono che il precariato, se è un male, è un male necessario. Perché siamo nel terzo millennio, perché è così che funziona l’economia della comunicazione e della conoscenza, perché le imprese hanno bisogno di flessibilità, perché dobbiamo affrontare la competizione internazionale, perché altrimenti l’occupazione non cresce. Il primo punto in effetti è corretto. A leggere le testimonianze raccolte in questo libro sembra di vivere ai bei tempi della schiavitù, e invece no, siamo proprio nel terzo millennio. Gli altri punti invece sono tutti ampiamente criticabili, ma soprattutto l’idea che l’Italia grazie alla precarizzazione abbia affrontato in modo “sano” i suoi problemi rispetto a occupazione e disoccupazione.
L’ occupazione si misura in due modi: contando quante sono le persone che stanno lavorando, e quante sono le “unità di lavoro equivalenti” che tengono conto di quante ore lavora ognuno.
Se ci sono due idraulici che lavorano 60 ore alla settimana, gli occupati sono due, ma visto che entrambi fan l’equivalente di una volta e mezzo un tempo pieno le unità di lavoro sono tre. Se poi il lavoro va male, ed entrambi lavorano solo 20 ore, i lavoratori sono sempre due, ma le unità di lavoro sono solo più una. In pratica, in un caso si contano “le teste”, nel secondo quanto lavoro c’è. Nel grafico sotto si vede cosa è successo a lavoro e lavoratori nell’ultimo decennio. La prima cosa da dire è che l’occupazione (la linea blu) complessivamente è cresciuta. Parte fiacca, poi inizia a crescere in modo vigoroso, e negli ultimi anni, più o meno quando Berlusconi eMaroni riescono finalmente ad abbattersi sul mercato del lavoro con la legge 30, rallenta bruscamente. Guardando alle unità di lavoro poi la frenata è ancora più drastica, e diventa un calo nell’ultimo anno (sottolineato già da tempo sia dall’Istat che da Bankitalia).
La cosa interessante da notare è che per la prima volta nella storia repubblicana sono più i lavoratori che le unità di lavoro: c’è più gente che lavora, sì, ma di lavoro ce n’è poco.
L’inversione di tendenza sarà merito del precariato?
Vai a sapere, ma rimane il fatto che la performance peggiore dell’occupazione in Italia si registra proprio negli ultimi anni, nei quali il precariato ha cominciato a diffondersi sensibilmente. Nel secondo trimestre del 2005 la percentuale dei lavoratori dipendenti che avevano un contratto temporaneo era già del 12.5% (era del 9% nel 2000). Se poi, anziché guardare ai dipendenti, guardiamo ai precari con la “C” maiuscola (quella di co.co.co.), la situazione è ancora più evidente, perché anche per loro possiamo confrontare in modo molto efficace quante sono le “teste” che lavorano con quanto lavoro effettivamente c’è. Quanti sono i commensali e quanto è grande la torta. Nel secondo trimestre del 2004 l’Istat ci ha detto che i cococò sono circa 400 mila (e aggiungiamo un “finalmente”, visto che è dal 1996 che aspettavamo stime affidabili). Tradotto in parole, il numero dell’Istat si legge più o meno così: “Nel giorno in cui abbiamo fatto le interviste, c’erano 400 mila italiani che stavano lavorando come cococò”. Che succede se un call-center decide di buttar fuori 10 mila di loro per sostituirli con altri 10 mila collaboratori freschi freschi?
Che il mese dopo l’Istat continua a contarne 400 mila (la dimensione della torta), ma il numero di commensali che se la son divisa sale a 410.000. Il numero di commensali l’Istat non lo misura, ma per saperlo basta chiedere all’Inps, che ha appena pubblicato on line il suo osservatorio sui parasubordinati. Bene, considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito identificata come la più debole – nel 2004 se ne son contate 840.000.
Quanto lavoro c’è? Cento. Quanti sono i precari che cercano di spartirselo? Duecento. Ma veniamo ai disoccupati. Anche qui, la prima notizia sembra buona: dal grafico sotto vediamo che il numero di disoccupati nell’ultimo decennio è calato molto, almeno dal ’98 in avanti.
Di nuovo, però, il numero dei disoccupati non è una statistica da guardare da sola. Ci sono casi in cui l’economia va bene, ma la disoccupazione aumenta: quel che capita è che molti sono presi da un turbine di ottimismo e si mettono a cercar lavoro, e finché non lo trovano il numero di disoccupati aumenta. E ci sono casi in cui il mercato è talmente depresso che molti alzano bandiera bianca, smettono di cercar lavoro, e il numero di disoccupati diminuisce. Nel grafico è riportato appunto il numero dei cosiddetti “scoraggiati”, cioè persone senza lavoro che a precisa domanda dell’Istat “Perché non sta cercando lavoro?” barrano la X su “Ritiene di non riuscire a trovarlo”. Il numero di scoraggiati – 600 mila fin verso il 2003 – nel 2004 ha una prima impennata che li porta al milione, per poi salire ancora a circa 1.250.000. Basta convincere un altro mezzo milione di persone che è inutile stare a cercarsi un lavoro e porteremo la disoccupazione ad un confortante 5.5%.
Ma torniamo da dove eravamo partiti, e concentriamoci sulla Grande Bufala. È vero che le imprese e la stessa competitività dell’Italia hanno bisogno di flessibilità. È falso, invece, che le storie raccolte in questo libro abbiano lontanamente a che fare con questa esigenza. Per chiarire questo punto bisogna fare qualche distinguo sulle diverse forme di flessibilità introdotte in Italia. Da un lato ci sono forme più “sane”, che rispondono a reali esigenze di flessibilità organizzativa.
Tra queste ci sono i contratti a tempo determinato, l’apprendistato, e persino quelle fattispecie “iperflessibili” che vanno dal lavoro interinale al job sharing e al lavoro a chiamata. Tutte queste hanno regole certe che tutelano il lavoratore, e possono rappresentare un modo per i giovani di entrare nel mercato del lavoro. E se questo percorso in molti casi diventa difficoltoso la colpa è più dell’economia che va male che di vizi particolari di questi contratti. Dall’altro lato c’è il Far West rappresentato da quel contratto di lavoro che è talmente precario che quando hai finito di dire come si chiama è già finito: il contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Che più che aiutare i giovani ad inserirsi nel mercato del lavoro ne ha tenuti milioni ai suoi margini – posizione dalla quale è stato più agevole un loro pacato sfruttamento. Ecco, la Grande Bufala è che questo contratto non piace alle imprese perché offre flessibilità, bensì – per chi ne ha voglia, diciamo – perché permette uno sfruttamento quasi legale del lavoratore.
Per capire questo punto bisogna tornare alle sue origini: il vero problema infatti è che è un contratto nato male. Prima del ’96, l’unico modo regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo con un tempo determinato, dandogli una paga equa (rispetto a quanto guadagnano lavoratori equivalenti impiegati in lavori simili), e pagando anche contributi sociali, ferie, tredicesima e liquidazione (che non sono “regali” ma son previsti in quasi tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte). Poi c’era la via alternativa, molto vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione d’opera occasionale, magari con la promessa di una futura assunzione, evitando così di pagare contributi e tutto il resto, e potendo proporre una paga senza preoccuparsi che fosse equa oppure no. Anzi, essendo quasi sicuri di riuscire a sottopagare il lavoratore senza dover trattare troppo, grazie al fatto che mancano tutte le componenti accessorie della retribuzione citate sopra: quanti collaboratori han fatto caso che la liquidazione non ce l’hanno?
Nel ’96, quando nasce la famigerata formula della “collaborazione coordinata e continuativa”, la via alternativa diventa la via principe.
L’idea del legislatore era probabilmente opposta, era quella di far sì che anche per le prestazioni di lavoro occasionale si versassero dei contributi sociali. Di fatto, si è finito per legalizzare la prassi di mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto l’etichetta del lavoro “coordinato”. Etichetta che, essendo stata creata dal legislatore, è risultata ancora più innocente della prestazione occasionale. In assenza di controlli efficaci non c’è voluto molto perché si cominciasse a utilizzarla anche per lavori di durata di anni (altro che “collaborazione”), e persino nei call-center (l’equivalentemoderno della catena di montaggio). Uno potrebbe dire “beh, son sempre lavori, e poi se durano anche…”. Peccato che il legislatore, non intendendola una forma di lavoro tipica, non abbia pensato di fornire le tutele che sono dovute al lavoro tipico. Così, chi ne ha voluto approfittare si è garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per anni mettendo da parte quasi nulla per la propria pensione, e con un livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale. Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente. Per il rispetto del diritto alla maternità rinviamo a numerosi post arrivati sul blog.
Il problema ulteriore è che, se già le cococò son nate male, la legge Biagi, a parte cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo, è stata una riforma per molti versi peggiorativa. Anche in questo caso le intenzioni iniziali erano buone, nella direzione di limitare l’utilizzo improprio delle collaborazioni. Per far questo la legge richiede una forma scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno specifico progetto. Se non si può identificare un progetto l’impresa può essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro dipendente. È questa, in effetti, la clausola che è stata recentemente chiamata in causa dall’Ispettorato dellavoro per imporre l’assunzione di alcune migliaia di lavoratori dei call-center (vi sembra credibile che le migliaia di lavoratori di un callcenter abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere?).
Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice “non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. E che con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare. Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ad hoc e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Anche nei fatti, la Biagi sembra aver provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle imprese. In molti casi le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate in cocoprò. Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma del ricatto. Lo dimostra una ricerca recente dell’Ires, condotta su un campione di persone che hanno aperto una partita Iva tra il 2003 e il 2004, dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo del contratto.
Alcuni dicono che se si riformassero ancora le cocoprò o se si rendessero più severi i controlli il risultato sarebbe l’aumento del lavoro nero. Come se un ladro chiedesse di poter prendere gratis il bottino, altrimenti sarebbe stato costretto a rubarlo. Se un imprenditore ha un’attività che riesce a stare in piedi solo a costo di sottopagare un lavoratore, o solo a costo di farlo lavorare in nero, allora un Paese che vuole svilupparsi in modo sano può anche farne a meno, così si fa spazio ad altri imprenditori, magari un po’ più capaci, e che non abbiano il vizietto di andare a comprare al mercato degli schiavi. Chiudiamo con una considerazione ed una (facile, facilissima quanto tragica) previsione.
I dati Istat sull’occupazione, fan vedere come sia estremamente difficile uscire dalla situazione di “precariato stabile”: nel corso del 2004, il 10% dei lavoratori con contratto di collaborazione è stato “promosso” a lavoratore subordinato, e solo 5 su 100 hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Il sistema di rapporti di lavoro vigente favorisce dunque l’inserimento iniziale (o il reinserimento) sul mercato del lavoro, ma non la sua stabilizzazione. A fronte di un incentivo di tipo contrattuale (minori vincoli al datore di lavoro) si assomma un incentivo di tipo contributivo. Date però le diverse forme di “incentivazione”, ciò porterà inevitabilmente ad una copertura pensionistica insufficiente.
Per fortuna, l’uomo è un animale che si adatta bene all’ambiente: così se, da giovane lavoratore precario deve chiedere il sostegno economico dei genitori, da vecchio pensionato ex-precario, lo chiederà ai propri figli. Ammesso che ne abbia: avere un lavoro precario riduce di dieci volte la probabilità che una lavoratrice faccia un figlio.
Postfazione di Mauro Gallegati (con la collaborazione di Roberto Leombruni)
Questa la domanda che noi di ASI ci siamo posti, e per trovare una risposta che in parte possa giustificare alcune manovre, abbiamo ricercato alcune notizie nel nostro paese che in alcuni casi passano inosservate e comunque essendo scollegate (apparentemente) fra di loro non vengono quasi mai messe in relazione.
Sin dagli anni 2000 le due società nascono in virtù dei dettami della legge Biagi, e della legge Treu prima, ovvero la possibilità di assumere operatori telefonici con contratti temporanei co.co.pro. o l.a.p.
Già nel 2011 Teleperformance avvia la procedura di mobilità per circa 600 operatori nella sede di via priscilla a Roma, le motivazioni ufficiali sono quelle di insostenibilità economica, quelle ufficiose in realtà affermano che la società stia smantellando la sede romana, in quanto non sostenuta da contributi statali e quindi la società decide di smistare il traffico telefonico ad altre sedi nel sud italia, ed anche a sedi presenti nel territorio albanese, dove ovviamente il costo del lavoro è decisamente più basso, è notizia di questi giorni che a partire dal 1 gennaio 2013 i dipendenti della sede Romana Teleperfomance saranno definitivamente licenziati.
Nel 2012 Almaviva Contact, avvia la procedura per la cassa integrazione espulsiva per 600 operatori della sede Romana di via lamaro, ufficialmente per scarsa produttività, ufficiosamente si ipotizza che la società abbia maggior ritorno nello spostare parte dei volumi di traffico nel sud Italia a Rende
Due realtà economiche in concorrenza sul mercato, ma che hanno in comune la visione futura del mercato delle telecomunicazioni.
Bisogna ragionare su un cambio di rotta che tenga conto delle esigenze di tutti lavoratori, committenti e aziende, che non faccia più affidamento sulle politiche di aiuti alle imprese, che drogano un sistema interno già saturo di anomalie e storture.
La creazione di un codice etico unico, condiviso da tutta la filiera delle telecomunicazioni, che ponga ogni azienda sullo stesso piano di competitività, e che detti le basi per la costruzione di un mercato di riferimento sano e condiviso; questa a nostro avviso l'unica strada perseguibile.
28 settembre 2012
Questo è un comunicato a diffusione interna che pochi hanno ricevuto, eppure il contenuto ci sembra di una notevole importanza.
Noi di ASI rimaniamo esterrefatti di fronte a questo comunicato, ovvero un accordo sul controllo a distanza che calpesta tutti i principi di correttezza e sopratutto l'articolo 4 dello statuto dei lavoratori, approvato su due piedi, senza trattativa, senza controparti, senza un referendum indetto tra i lavoratori e senza uno stralcio di comunicazione trasparente e capillare. Un accordo "in via sperimentale", peccato non ci creda nessuno.
Se da un lato Roma lotta per i propri diritti, dall'altro Palermo non solo depone le armi, non solo non si adopera per dare risalto alla situazione Romana, ma aggrava la situazione inasprendo le già dubbie condizioni lavorative. Una cosa la riconosciamo, il tempismo è stato perfetto.
Per noi di ASI, ogni altro commento si ridurrebbe a tutta una serie di improperi che nulla hanno a che fare con il nostro stile, lasciamo il giudizio ai Lavoratori
Si inizierà con un controllo capillare dell'orario di ingresso dei propri dipendenti nella sede di Palermo, che saranno costretti ad iniziare il loro turno lavorativo nel momento stesso in cui apriranno gli applicativi informatici da loro utilizzati, una modalità che noi di ASI reputiamo senza senso e sopratutto vessatoria, ma andiamo per ordine.
Prot. N. op. 001/12
Anticipando che il suddetto comma contrattuale non risente in modo alcuno di periodi verificati o comunicati di probabili crisi aziendali, nè rientra tra le clausole suscettibili di modifica a seguito dell'utilizzo di ammortizzatori sociali nell'anno in questione, la scrivente non comprende il motivo (laddove presente) di un ritardo così ampio nel valutare la propria forza lavoro in essere e riconoscere, laddove verificato, un inquadramento consono alle reali ed effettive capacità e prestazioni lavorative.
E’ lecito dissentire sulla valutazione dei fatti, si possono avere idee diverse sui rimedi da approntare per la soluzione dei problemi, ma non accettare la realtà equivale a separarsi da questa e a cacciare ogni prospettiva di dialogo nel vicolo cieco dell’incomunicabilità.
Come chiarito – sia pure sinteticamente – nella nota del 28 agosto 2012, Almaviva Contact ha avviato la Procedura a fronte di motivazioni obiettive e al fine di evitare esiti ben più gravi e penalizzanti per i lavoratori, la società e gli Azionisti di questa.
E’ destituita di ogni fondamento l’illazione secondo cui l’Azienda, avviando la Procedura e trasferendo presso altri siti italiani, siti ove spesso l’anzianità aziendale dei dipendenti è ben superiore a quella romana, l’erogazione dei servizi oggi attivi presso il Centro di via Lamaro, intenderebbe lucrare sugli incentivi pubblici – nazionali e locali – connessi all’assunzione di personale in alcune aree del Paese – abbattendo, per tale via, il costo del lavoro -.
Se così non fosse stato, per quale motivo Almaviva Contact si sarebbe fatta carico di sostituire – affrontando, peraltro, tutte le criticità operative e i contrasti del caso – il subappaltatore che, da oltre un decennio, erogava i servizi di call center nei confronti del Cliente Trenitalia? Mantenere lo status quo sarebbe stato certamente più conveniente, in termini di conto
economico. Ma non avrebbe corrisposto all’esigenza di salvaguardare competenze e occupazione. Figlio della medesima logica, d’altra parte, è stato l’avvio, su Roma, negli ultimi anni, di commesse importanti e qualificanti, come quelle rivolte ai Clienti INPS, ENI, Mediaset.
Ad ogni buon conto - al fine di evitare false strumentalizzazioni e, soprattutto, al fine di consentire a tutti piena comprensione dei fenomeni alla base delle nostre decisioni -, i competenti Organi aziendali hanno già deliberato che eventuali benefici - sia nazionali, che locali - che dovessero indirettamente derivare dal trasferimento delle attività in rassegna, saranno rifiutati o integralmente devoluti ai lavoratori più meritevoli di Almaviva Contact, quale premio individuale di merito, al termine di ogni anno.
Ribadiamo quindi che la scelta compiuta ha causa e motivazione solo ed esclusivamente nei non più sostenibili risultati economici prodotti dal sito di via Lamaro, determinati da indici qualitativi e produttivi assolutamente non compatibili con la realtà del nostro mercato.
Ci rendiamo perfettamente conto che il cattivo andamento sopra evidenziato è il frutto del contegno di una parte soltanto dei dipendenti impegnati nel sito di via Lamaro. Avremmo quindi volentieri evitato, se fosse stato possibile, di praticare la strada intrapresa il 28 agosto u.s., perché non ci sfugge come questa penalizzi ingiustamente le persone serie, diligenti, competenti, comunque presenti presso il Centro. Ma eravamo e siamo certi che la misura adottata possa contribuire a evitare il realizzarsi, di qui a qualche mese, di un’ingiustizia ben più grande: la crisi del complesso delle attività di call center svolte dal nostro Gruppo in Italia, con la conseguente messa in discussione non di 632, ma di oltre 10.000 posti di lavoro.
D’altro canto, se c’è un’Azienda che non ha mai praticato il “mordi e fuggi” delle provvidenze legate alle fasi di avvio di un’attività imprenditoriale, questa è Almaviva Contact – che ha una presenza ultradecennale nel Mezzogiorno d’Italia -.
Abbiamo, dunque, la coscienza a posto. E questo ci dà la forza necessaria per compiere e attuare scelte dolorose, ma inevitabili.
Andrea Antonelli Amministratore Delegato
Roma, 5 settembre 2012
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