Formazione o forma mentis?
Formazione o forma mentis?
Riqualificazione delle competenze o dei propositi?
Lavoratori in CIGO. Ingresso in aula.
Presentazione di buon auspicio. Ammissioni più o meno celate di responsabilità. Ci si confronta, si racconta il proprio punto di vista, il proprio stato d’animo, si espongono dubbi, si esternano malumori, si palesano stanchezze e incertezze … anche se molti, ancora oggi, preferiscono l'omertoso silenzio.
Improvvisati conoscitori del più accreditato manuale di comunicazione, si tenta un percorso audace e poco convincente. "Dire" per “comunicare” è un lavoro complesso e nonostante la chiarezza e la fluidità espositiva, i concetti pagano l’inconsistenza dei fatti e si trasformano in sterili frasi dai contenuti vaghi.
Watzlawick e la pragmatica della comunicazione umana, per chi volesse cominciare.
E come le più accreditate formazioni, riceviamo la somministrazione di un test di personalità. Una versione chiaramente rivisitata nella forma e nei contenuti, del più noto MMPI. 25 item e un grafico che si propone di rappresentare le caratteristiche di ognuno relativamente ad assertività, remissività, aggressività. Un completamento del corso evidentemente, ma se da un lato può incuriosire e divertire affidarsi a questi strumenti, per alcuni di stregoneria medievale, dall’altro mi chiedo che utilità abbiano.
Operatore 3° livello, assunto con semplice colloquio individuale. Unico requisito richiesto: tolleranza allo stress. Appunto! Magari sarebbe stato più interessante misurare il livello di stress per ricavare un elemento in più e provare a comprendere la condizione psicologica dei lavoratori.
Ma non fermiamoci. Arrivano i numeri, spiegazioni, andamenti, flussi, criticità, necessità di servizio e ancora spiegazioni, percentuali, grafici. "Interessante" a sentire i colleghi. Purtroppo in disaccordo sugli interventi, e non per principio o per spirito di contraddizione, semmai per uno spirito critico finalizzato ad esprimere un pensiero che urla il bisogno di guardare in faccia la realtà delle cose e chiamarle con il proprio nome.
Come si conciliano i numeri con le esigenze delle persone? Alle menti matematiche dell’azienda ricordo che esiste una “correlazione” tra dati, intesi come risultati di servizio, e stati emozionali dei lavoratori. Nulla di nuovo.
In questo “rinnovamento” esiste un piano di investimento finalizzato a salvaguardare lo stato psico-fisico dei lavoratori? Si riuscirà a cambiare rotta, a cambiare strategia e puntare su una imprenditoria nuova, dinamica, aperta e “sana” o si risolverà tutto con la solita richiesta cortese di “flessibilità”?
A proposito, tale definizione è diversa da quella comunemente intesa. Flessibilità è l’unione in una sola parola di "tutto e niente". E’ svolgere tutto, nei modi previsti, velocemente, rispettando i parametri richiesti, offrendo qualità, cortesia, professionalità, competenza, disponibilità. In pratica prostituirsi senza precauzioni e con un compenso pagato in cambiali.
Qualità e quantità sono state da sempre contraddistinte da una logica esclusiva e "mai" inclusiva. Ma il tempo e il PIL cambiano perfino le definizioni e le logiche.
E intanto fissano un obiettivo che viene presto superato da altri competitors. Ecco quindi che gli standard salgono. E’ come il raggiungimento di un record, se qualcuno tocca il valore più alto allora tutte le competizioni devo spingersi per superarlo. Peccato che dall’altra parte ci siano sempre i poveri lavoratori che pur di mantenere il lavoro, accettano compromessi indecorosi per la propria persona e si spingono per sostenere ritmi e fornire performances sempre più elevate. La ricompensa? Un lavoro a tempo indeterminato "precario", uno stipendio misero di cui non si riesce purtroppo a fare a meno e la morsa psicologica che ricorda che in Italia non c’è lavoro.
E intanto le aspettative aumentano a tutti i livelli e coloro che stanno alla base della gerarchia, i lavoratori, ricevono sempre e solo la presentazione del conto.
La ricompensa economica, seppur mordente principale, purtroppo da sola non basta a motivare una forza lavoro che ha delle esigenze, “bisogni” direbbe Maslow. E' la soddisfazione di quei bisogni che sviluppa e determina il senso di appartenenza, di affiliazione, di partecipazione al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Purtroppo poche aziende investono in tal senso. Eppure sembrano così banali le dinamiche tanto sono evidenti!
Siamo circondati da mestieri del “non senso”, che non qualificano per una ricollocazione lavorativa, anzi tolgono tempo ed energie destinate ad altre forme di investimento, e sfruttano la mancanza di lavoro e le necessità economiche di ognuno per realizzare legami apparentemente invisibili ma inestricabili come catene.
E’ necessario dare nuove risposte, fornire ai lavoratori, costantemente, un feedback del lavoro svolto, che non sia vago e consolatorio, ma supportato da valori reali comunicati con gentilezza e perché no, con affetto.
Ogni modifica che si vuole apportare a un gruppo di lavoro, deve partire prima da chi lo richiede. I lavoratori vanno ispirati e non imboccati.
Frullano le domande di sempre. Perché far parte di una squadra che non riconosce il proprio operato? Perché investire per il raggiungimento di obiettivi che non vengono condivisi e non portano ad alcuna gratifica personale? L’amarezza mista alla rabbia di sentirsi numeri e la voglia di voler recuperare a tutti i costi quel tempo che qualcuno ha sottratto alle idee, ai sogni, alle capacità, agli studi, qualcuno che ancora oggi, nonostante tutto, nel viaggio verso le trattative aziendali, si ostina a portare con sé solo numeri, grafici, proiezioni e matricole da vendere, prodotti da piazzare in un mercato che schiaccia e annulla la meraviglia umana chiamata “creatività”.
04 Luglio 2011
Category: Primo Piano
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