Tutta la vita davanti?
Illustrazioni magiche, architetture e incastri notevoli, scale impossibili, profondità surreali, elaborazioni geniali. Artisti.
Il nostro stile di vita ha espressioni meno talentuose e ciò che oggi sembra caratterizzarci, conosce solo due dimensioni: i gusti personali e i soldi che possiamo spendere.
Ma siamo veramente ciò che possediamo? Capitalismo, confort, tecnologia, sono soddisfazioni per l’Ego ingordo che danno l’illusione di godere del libero arbitrio. Nella realtà non è così.
E’ il tempo di un giorno qualunque, dove il pensiero si spegne nel tentativo di volere essere altro e in un attimo lascia fuori sogni e speranze. Le note ancora in testa. L’andirivieni dei colleghi nell’alternanza dei turni. Cronometro avviato. Una capatina alla tolette; una senza specchio, l’altra con un rotolone che non vuole saperne di funzionare. Anche scegliere il bagno comporta delle rinunce.
Ok sulla barra. Richieste incompatibili da assecondare. Richiamati per una gestione troppo lunga, storditi dalle chiamate sparate alla velocità di un kalashnikov, inseguiti dalle urla di chi ha confuso l’open-space con la Vucciria. E noi, dotati ancora di una calma improbabile e "educati" per raggiungere livelli maggiori di produttività. Presto un tapis roulant rimpiazzerà le sedie e con ritmo incalzante, macineremo il caffè per la grande distribuzione.
Mi sento un po’ confusa quando il management asserisce che è fondamentale puntare sulla qualità.
Universitari che non riescono a pagarsi gli studi, ragazzi che si inventano da vivere, laureati con titoli inutilizzabili, genitori, vite, storie. Con cuffietta e microfono, assolviamo il ruolo lavorativo che la società ci riserva con gentile ipocrisia e neanche troppo facilmente, come fosse un tavolo esclusivo sul bateau-mouche in crociera sulla Senna.
Dove sono ancorati i nostri sogni e come siamo finiti in questo teatro di marionette?
C’è chi sta peggio dicono; tentativo di stupida consolazione.
La miseria degli altri è quella di tutti e la possibilità di lavorare non dovrebbe essere considerata un miracolo; ogni individuo ha diritto ad una vita migliore e una società non può definirsi evoluta se non realizza tale proposito.
Che amarezza gli spot televisivi che presentano il Call Center come luogo di lavoro ideale, di sollazzo e divertimento, con caroselli ad effetti speciali e esibizioni stile can can sulle postazioni di lavoro.
Nessuno racconta delle aspettative, delle speranze e degli entusiasmi iniziali, spazzati via dal peso di un lavoro che logora lentamente e inesorabilmente, che mortifica per la scarsa considerazione della persona, che opprime con richieste incessanti a fronte di un salario che rimane sempre e comunque troppo basso; che umilia con organizzazioni aziendali lontane dai lavoratori che, come gli operai di un tempo, rimangono sempre all’oscuro dei fatti.
Chiamate continue. Molte gestioni nella norma, altre da delirio. Clienti esasperati e insoddisfatti, vittime di disservizi e di labirinti semantici, che non sentono ragioni e si aspettano soluzioni immediate, servite con delicati soffi di vento e polvere di stelle.
Dobbiamo essere specchio per i clienti, empatici. Accogliere e contenere i loro stati d’animo anche quando tirano giù i santi dal paradiso e mandano noi all’inferno; dobbiamo essere capaci di generare “false” esigenze e piazzare il prodotto. Vendere. Solo se riusciamo a fare quello siamo veramente bravi. Se assecondiamo la richiesta dei superiori, se traguardiamo gli obiettivi, se raggiungiamo i target fissati; se diciamo e facciamo nei modi e nei tempi previsti, se pensiamo, ehm… no, quello no!
Ancora oggi aziende pubbliche e private, continuano a valutare il solo rischio da videoterminale, come se la molteplicità dei fattori contestuali fosse irrilevante. La sindrome da burnout non è l’invenzione folle di studiosi sprovveduti.
La convinzione che fosse un impiego di passaggio, lascia il posto al ruolo sociale che ci qualifica come operai del 2000. Ma ancora per quanto? La nostra classe dirigente continua ad affermare che il problema occupazionale è indissolubilmente legato alla crescita economica internazionale, che la causa viene da lontano. Probabilmente è vero, ma è anche vero che è più facile scaricare le responsabilità altrove. Meglio seguire un falso rinnovamento morale, rietichettare le prostitute con il sinonimo di “escort” e rivestirle del ruolo enigmatico che ancora qualcuno, fuori tempo, non sa definire.
L’Italia non è una repubblica fondata sul lavoro. Piuttosto “affondata”.
Einstein diceva che “l’uomo intelligente risolve i problemi, ma l’uomo saggio li previene”.
Né intelligenti. Né saggi.
Nelle lontane lotte di classe, quelle dei minatori per citarne alcune tra le più serrate, il padrone mai avrebbe dettato legge intimando lo spostamento della miniera. Seppur nello squilibrio assoluto delle forze e del potere, almeno quello era un “punto di equilibrio” dove resistere anche qualche minuto in più, significava essere presi in considerazione.
Nel mondo moderno, quello globalizzato, questo ago della bilancia si è rotto. Amaramente deluse le aspettative di tanta millantata crescita economica a cui gli scambi internazionali avrebbero dovuto portare. L’unico risultato? La vanificazione di anni e anni di lotte sostenute dai lavoratori per il riconoscimento dei propri diritti.
Anche i sindacati sono stati spazzati via. I loro abiti dismessi. I ruoli? Carcasse vuote. Non è un problema di strategie. Non c’è dialogo, non c’è storia. Neanche sulle briciole ci sono margini per trattare. E’ una partita truccata, l’arbitro è corrotto e cornuto. Nessuna possibilità di vittoria.
Ne riparleremo quando qualcuno escogiterà un modo per inchiodare i multimiliardari alle loro responsabilità nei confronti delle famiglie italiane, quando i politici di turno sapranno guardare al Paese, quando i lavoratori indiani, albanesi, cinesi, brasiliani, otterranno condizioni di vita e di lavoro tali da non rendere più conveniente utilizzare loro contro di noi.
Ma nell’attesa di queste agognate rivoluzioni, sarebbe dignitoso non illuderci con ideali di lotte fantasiose e con finte rappresentanze e non umiliarci come sognatori perduti nell’isola che non c’è.
30 Agosto 2011
Category: Primo Piano
0 commenti